Tre cavalieri della tavola romana...
Qui la regina è la cucina romana, caposaldo della gastronomia italiana, ed i tre cavalieri che le fanno da scorta immancabile sono: il broccolo romanesco, il guanciale e pecorino romano.
Non ce ne vogliano altri ingredienti fantastici della cucina romana, come il carciofo e le fave, ma di questi parleremo nella loro stagione...E se guanciale e pecorino sono le colonne dei tre immortali piatti di pasta romani ( carbonara, amatriciana e gricia), che hanno meritato perfino un francobollo della Repubblica Italiana, il matrimonio del broccolo con l'arzilla costituisce una delle minestre più originali della gastronomia del nostro Paese.
Il Broccolo romanesco fa parte della famiglia delle crucifere; come il cavolo, il cavolfiore, il broccoletto, il broccolo siciliano. La sua particolarità sta nella forma, a cono con il vertice in alto. In molti assimilano la forma di questa infiorescenza alla sequenza di Fibonacci, matematico vissuto tra il 1170 e il 1240, sequenza composta da numeri interi positivi in cui ciascun numero è la somma dei due precedenti. Nel broccolo il numero di rosette che lo compongono, partendo dal vertice alto, composto da un'unica inflorescenza, si succedono con forma regolare a comporre la forma conica. Le origini le ritroviamo nella campagna romana, da qui il nome; sembra che ad Ariccia ci sia una famiglia di coltivatori che detiene i semi derivanti dalle piante originali. Di questa pianta noi consumiamo non le foglie ma l'infiorescenza, le famose cimette, una volta separate le "roselline", non ancora mature ma gustosissime. L'inflorescenza nasce da un arbusto centrale, di cui noi utilizziamo anche la parte esterna, arbusto che in romano si chiama torzolo, che nell'idioma dialettale si assimila a qualcuno un poco tonto, un po' inutili, infatti del torso se ne consuma una parte minima.
Nel 1834, Giuseppe Gioacchino Belli, sommo poeta romanesco, nel suo sonetto “Er Testamento Der Pasqualino” chiama l'ortolano “Torzetto” perché coltivava e vendeva i broccoli romaneschi. Il broccolo romanesco è ricco di antiossidanti e vitamina C. E' una delle colonne portanti della cucina romana, meraviglioso consumato come contorno: bollito, al vapore o meglio ancora ripassato in padella con olio,aglio e peperoncino. Componente indispensabile per confezionare la vera grande minestra della cucina romana,: broccolo e arzilla, uno dei primi piatti nella storia gastronomica che abbina un prodotto dell'orto con del pesce...ed uno dei piatti forti della Viglia di Natale.
Il Guanciale è un salume ottenuto, appunto, dalla guancia del maiale; la stagionatura avviene per almeno 60/90 giorni in ambiente fresco ed asciutto, la concia cambia a seconda dei territori in cui si realizza. Anche il nome assume diverse forme a seconda della regione, nel Lazio appunto guanciale, in Umbria barbozzo, in Toscana gota e in Emilia e Lombardia ganassino. Dopo la sezionatura delle carni, la guancia viene ritagliata, ne esce una sezione di forma triangolare, che viene messa sotto sale per almeno cinque giorni, poi lavato e condito, per aromatizzarlo ma anche per meglio conservarlo. Il condimento varia di zona in zona: ad Amatrice, patria di questa specialità, si utilizza solo il pepe, mentre ai Castelli e nei dintorni di Roma si utilizza più spesso il peperoncino. In altre zone si utilizzano anche erbe aromatiche o spezie varie, ma il condimento che meglio conserva il gusto originale è quello di Amatrice. Una volta condito il guanciale viene appeso in ambiente fresco ed asciutto, e fatto stagionare. L'uso in cucina del guanciale è strettamente legato alla gastronomia romana, l'uso più frequente è quello nelle pastasciutte: Amatriciana, Carbonara e Gricia, piatti che appartengono ormai ad una tradizione che ha superato non solo i confini regionale, ma che rappresentano l'Italia nel mondo gastronomico. Voglio spendere due parole sull'origine della Carbonara; una suggestiva leggenda vuole legare questa ricetta al periodo finale della seconda guerra mondiale, quando le truppe di stanza a Roma mettevano a disposizione delle massaia uova in polvere e bacon, ma credo che in realtà questa teoria sia dovuta sopratutto alla mancanza di materia prima fresca, si trovano tracce di una pasta condita con uova e pecorino già in trattati di cucina, dei primi dell'ottocento. E' logico presumere che l'origine venga dai pastori Abruzzesi che arrivavano nella capitale e tra i cibi da loro consumati si trovasse questa pasta che deriva dall'antica tradizione abruzzese di condire l'agnello con "cacio e ova".. I veri amanti del guanciale amano consumare questo prodotto anche crudo, tagliato sottile e steso su una fetta di pane, possibilmente sciocco.
Il Pecorino romano nasce naturalmente con la pastorizia; già ai bagliori di una certa organizzazione sociale dell'uomo primitivo il formaggio era una delle risorse gastronomiche utilizzate dall'uomo. La pastorizia nell'Agro Romano gia' un paio di secoli prima di Cristo era una risorsa economica importante, e l'arte casearia ne era direttamente collegata. Omero descrive la lavorazione del latte di pecora, codificata nei secoli successivi tanto che Columella nel suo “De re rustica” può darne una dettagliata descrizione.
Gli antichi romani apprezzavano il Pecorino Romano: nei palazzi imperiali era considerato il giusto condimento durante i banchetti mentre la sua capacità di lunga conservazione ne faceva un alimento base delle razioni durante i viaggi delle legioni romane. Era talmente in uso fra i Romani, che fu stabilita anche la razione giornaliera da dare ai legionari, come integrazione al pane e alla zuppa di farro: 27 grammi! Questo formaggio ridava forza e vigore ai soldati stanchi e oggi sappiamo perché: il Pecorino Romano è una iniezione di energia e anche di facile digestione. Questa preziosa tradizione ci è giunta dai nostri progenitori, e possiamo dire che sia rimasta integra, raccolta dal Consorzio per la Tutela del Pecorino Romano che con un disciplinare preciso regola la lavorazione di questo formaggio. "Il latte fresco di pecora, proveniente da greggi allevate allo stato brado e alimentate su pascoli naturali, viene trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate. Al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una temperatura massima di 68° per non più di 15″.Vengono così riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo una metodologia che si tramanda da secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti del Pecorino Romano ed è costituito da un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni. Aggiunto l’innesto, il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i 38° e i 40° utilizzando il caglio di agnello in pasta. Accertato l’ottimale indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di un chicco di grano. Dopo il raffreddamento, le forme sono sottoposte alla marchiatura. Il marchio della DOP è apposto con una matrice che imprime sulla forma, oltre alla denominazione di origine del formaggio e al marchio (la testa stilizzata di una pecora), anche la sigla del caseificio produttore e la data di produzione."
Il formaggio così ottenuto, si presta ad un utilizzo vari e diversificato, da condimento alle paste tipiche romane -in primis il "Cacio e pepe"- al consumo assoluto, magari abbìnato ad ortaggi freschi come le fave, tradizionalmente legato alla festa del Primo Maggio. Ma di loro parleremo in primavera, quando, insieme ai carciofi, ci delizieranno il palato con altre ricette classiche romane.