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Birra, pizza e alta cucina, l'unione che sorprende


Niko Romito ( foto Alberto Blasetti)


Cereali, lievito e acqua. Stop. La semplicità a tavola. Eppure per uno come Niko Romito, miglior cuoco d’Italia secondo la Guida ristoranti del Gambero Rosso, lavorare su questi tre unici elementi può diventare un’ossessione. Che richiede studi di biologia, esperimenti sulle maglie del glutine, continue correzioni di rotta. Ma alla fine, dopo anni di tentativi, quello che esce è il pane perfetto. L’idea platonica del pane. Un pane così preciso nel suo rapporto tra fragranza, profumi e leggerezza da finire sul menu del suo locale tristellato in Abruzzo al pari delle ricette più complesse e articolate. In carta semplicemente come tale: Pane. Cereali, lievito e acqua. Tre elementi che diventano nodo di scambio di due percorsi lungo direttrici opposte. Se Romito parte dalle ricette dell’alta cucina per arrivare con farine di grano antico all’essenza del pane, Leonardo Di Vincenzo, uno dei pionieri della birra artigianale in Italia, fa il contrario: prende le mosse dagli ingredienti di base della birra (a parte il luppolo gli stessi del pane) per pennellarli con lo sguardo di uno chef. Che gioca sulle strutture, mescola le carte, aggiunge spezie, inventa aromi, tenta nuovi metodi di cottura. L’incontro tra questi due mondi si celebra a Chef Bizzarri, il progetto di Birra del Borgo che stimola i grandi cuochi a ripensare la birra e i birrai a osare come gli chef. E per farlo mette al centro del campo il cibo che meglio incarna la nostra tradizione: la pizza. Cereali, lievito e acqua, ancora una volta. È così che le creazioni di Romito e del pizzaiolo dell’Osteria Birra del Borgo Luca Pezzetta si sono incrociate con le birre più estreme dell’impianto reatino: il pane semplice e spettacolare dello chef abruzzese con la Saracena (prodotta con alta percentuale di grano saraceno che fornisce una robusta freschezza erbacea; la mitica bomba salata con maiale fondente (Romito è figlio di un pasticcere) unita a Caos (mosto di malto e uva Malvasia per un concerto di aromi); la pizza alla pala di Pezzetta con la Lisa (lager con un sentore di scorza d’arancia); l’antifocaccia con impasto al cappero farcita con vitello tonnato in simbiosi con l’Equilibrista (aggiunta di mosto di Sangiovese e spumantizzata). E per finire la bomba con crema pasticcera mandata a nozze con la Lost Barrel (Imperial Stout tagliata con aceto balsamico). Serata memorabile a cui seguiranno, sempre all’Osteria Birra del Borgo a Roma, le tappe con Heinz Beck (4 aprile) e Pino Cuttaia (15 aprile). Ma in che modo prodotti così popolare come pane e pizza possono trasformarsi in alta gastronomia, in terreno per l’innovazione?


( foto Alberto Blasetti)

NIKO ROMITO. Il primo a rispondere è Niko Romito, partito da autodidatta dopo la morte del padre e oggi alla guida di Casadonna Reale, ristorante, albergo e scuola di cucina presso un ex monastero del 1500 a Castel di Sangro, oltre che ideatore di una rete di laboratori gestiti dai diplomati della scuola, con sedi a Milano e Roma, e gestore con la società Bulgari di tre ristoranti a Dubai, Pechino e Shanghai. “La birra – dice – può offrire molte ispirazioni. Specie per quanto riguarda le bottiglie che nascono con concetti sartoriali e con lo studio delle farine e dei vari abbinamenti. Io ad esempio una volta ho assaggiato una birra che aveva un’aggiunta di genziana. Ricordo ancora il suo sapore pungente in bocca. È da quel bicchiere che mi è venuta l’idea per creare un piatto con una nota amara nel finale. La birra non era da pasto, ma da meditazione. E così ho pensato di realizzare un dessert con un po’ di genziana per chiudere l’assaggio in modo diverso dalla prevedibile dolcezza. Ed è nato Essenza, un piatto che ancora ho in carta”. Birra e alta cucina dunque possono contagiarsi a vicenda… “I vari mondi, che prima agivano separati, hanno cominciato ad incontrarsi: birra, alta ristorazione, panifici, pizzerie. Unirsi vuol dire contaminarsi, far dialogare i vari reparti. Pensiamo all’importanza del topping nella pizza: un impasto creato con sapienza da un bravo pizzaiolo può ricevere spunti ulteriori da uno chef capace di qualificare ancora di più quella base. E viceversa, il pizzaiolo può aiutare il cuoco nella costruzione di un pane o di una focaccia da servire al ristorante”. Lei è stato il primo a inserire il pane nel menu non come mero accompagnamento delle portate ma come piatto a sé. Come è nata l’idea? “Nel 2013 ho deciso di togliere il cestino del pane e di proporre una pagnotta al centro della tavola. Poteva sembrare una stranezza. Ma dietro quella pagnotta c’era stata una ricerca lunghissima, di anni, con studi sui grani antichi, sulle farine e soprattutto sulle fermentazioni. Già, perché a mio avviso, i grani antichi sono ottimi, ma non disdegno farine biologiche moderne, che spesso danno risultati altrettanto eccezionali. Quello che invece fa davvero la differenza sono le fermentazioni: dipendono dai lieviti la leggerezza del pane e la sua digeribilità”. Dunque, guardare al passato, ma con occhi moderni… “Senza pregiudizi e con gli strumenti di oggi. I pani di una volta erano straordinari quanto a profumi, ma avevano un peso specifico pazzesco, si faticava a tenerli in mano. Questo perché i grani che usavano le nostre nonne e i fornai dell’epoca potevano inglobare poca acqua a causa della maglia glutinica debole. Il lavoro fatto da me e da altri panificatori è stato quello di rendere più gustoso quel pane usando la stessa farina ma con più acqua. E questo è stato possibile solo dopo lunghe ricerche su come lavora il glutine e sui processi di fermentazione”. Come immagina in futuro questa collaborazione? “Tradizione e innovazione per me sono la stessa cosa. Oggi abbiamo a disposizione tecnologie e conoscenze scientifiche che trent’anni fa non esistevano. E queste ci permettono di rendere semplici fette di pane le protagoniste della tavola. Così come qualsiasi altro piatto della cucina popolare. Il cuoco oggi ha una missione: intervenire sulle ricette della tradizione e renderle più buone”.


( foto Alberto Blasetti)


LEONARDO DI VINCENZO Leonardo Di Vincenzo, invece, ha sempre sempre guardato alla cucina d’autore come una scuola di metodo per il suo birrificio in provincia di Rieti. “L’alta ristorazione – spiega – è fonte di idee perché rappresenta la ricerca allo stato puro. Nel senso che ti spinge a prendere un ingrediente irrituale e aggiungerlo per vedere gli effetti e gli equilibri con il resto della preparazione. Ti stimola inoltre a lavorare tantissimo sulla scelta della migliore materia prima e sulla prova di tecniche sempre più evolute. Alla fine ho capito che i due mondi sono molto più vicini di quanto possa sembrare. E un birraio che voglia produrre una bevanda diversa deve per forza usare abbinamenti non convenzionali e tecniche di produzione innovative, che nel nostro caso sono andate dall’uso delle anfore al metodo solera passando per la spumantizzazione”. Sugli ingredienti da abbinare al tradizionale malto vi siete sempre sbizzarriti. Quali sono stati gli inserti più particolari? “Uno molto particolare sono state le ostriche. Qualcuno avrà pensato: questi vogliono fare la cosa strana a tutti i costi. E invece no: le ostriche, con la loro mineralità e il gusto sapido, danno un equilibrio incredibile alla nostra birra scura, creando una consistenza vellutata e cremosa che produce un risultato unico e inconfondibile”. Altri esempi? “Beh, di tutto. Dalla frutta come la scorza d’arancia al mosto d’uva, dall’aceto balsamico a un falso cereale come il grano saraceno, ma anche spezie e ogni altro elemento che sappia dare alla birra un’identità particolare e soprattutto un gusto straordinario per il palato”.

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